Quando incontri Babbo Natale
con le ossa rotte,
con lo sguardo truce,
che ti passa accanto
e ti fa spallucce,
dagli la mano, il cuore,
digli grazie pur se è triste.
Il regalo che ti dà
è sapere che esiste.
Quando incontri Babbo Natale
con le ossa rotte,
con lo sguardo truce,
che ti passa accanto
e ti fa spallucce,
dagli la mano, il cuore,
digli grazie pur se è triste.
Il regalo che ti dà
è sapere che esiste.
Non son bastati millenni,
profeti, saggi,
filosofi, santi,
democrazia o dittatura.
La Storia non muta,
attonita resta
uguale a se stessa.
La guerra e l’odio
sono il suo per sempre.
Così le parole a contorno,
retorica dell’impotenza.
Anche quando i passeri
gelano a terra
e ogni tuo passo diventa burrasca,
anche quando la vita diviene
una lama nei fianchi
e un nulla da tenere in tasca,
nel cielo cupo, a cercar bene,
c’è una nuvola più chiara di altre,
a margine sciolto, turchino,
dove, se guardi e non ti stanchi,
il sole, quasi, può far capolino.
Dopo che, scendendo il fiume,
hai trovato il mare
e che, scalando il monte,
hai trovato la vetta,
e non vedi ora che onde,
e non vedi oltre che nubi,
puoi sognare possa esistere
felice una nuova costa,
e, oltre ancora,
vi siano mille e più stelle,
ma, qui intanto, sulla vetta del mare,
in silenzio,
rimane disarmante la distanza,
s’avverte tragico il naufragio,
e, a un passo, orrido, il precipizio.
Può darsi che pettinare parole
sia un atto banale,
che vestirle alla moda, sdrucite,
sia un’istanza popolare,
che tenerle in gabbia a guinzaglio
sia pure immorale
quanto lasciarle libere, afone
o taglienti da far male.
In un mondo probabile,
tutto è probabile.
Anche che tante parole
siano troppe e perciò vane.
Tu che tieni a filo un aquilone
e mai lo molli,
che a mano piagata
non molli,
che a occhi bendati colori,
che a vento placato sostieni,
tu che leggi una poesia che non scrivi
che leggi, perdi e rileggi
sino a seccarti gli occhi,
che porti l’animo aperto
per dar rifugio agli altri
e un sorriso a te,
tu sii il beato che sei
perché con te crescono gli uomini
e nella tua luce il mondo!
Così Amore
provò col rosso acceso sulle labbra,
tentò con tremanti parole a distanza,
s’illuse coi voli nel cielo d'una stanza
e non si trovò.
Fu così che Amore
scoprì di non essere Amore.
Da qui lo sguardo scivola
fino alla valle ombrosa,
alle tue fitte ciglia e, insù,
ai prati alti, alle tue spalle tonde.
Ancor più in là, vertiginoso,
corre dai colli al collo
dai picchi agli occhi,
fino al paesaggio d’oltre che v’accomuna.
Là, oltre confine,
verità e realtà sono cosa sola:
qua, ancora, un desiderio maldestro
fraintende il creato con la persona.
Riempito il camion di luoghi comuni,
ideologie, pregiudizi,
oggetti d’uso e costumi,
s’avviò verso la nuova casa.
Dicendo all’autista:
“Porta quanto in discarica,
io provo stavolta
a vivere di vuoto…”.
Ogni due giorni di grassa, cento di magra,
radici cubiche d’ipotesi per esiti decimali
e, tutto, a moltiplicare per zero.
Dalle utopie ai più piccoli sogni.
E il resto: manca.
Abbiamo bisogno di sogni
e d’un incanto per sempre,
che gli alberi ci sorridano
e l’erba rimanga verde.
Abbiamo bisogno che il tempo
ricolori d’arcobaleni
e che la pelle odori di fieno,
di mare e di te.
A pelle nuda e a occhi nudi,
a frugar dicembre tra la bora.
Con il pudore senza difesa.
Senza parola.
Davanti al terrore per gli altri
ognuno mente finché può.
Illude e s’illude
per essere infelice.
Il segreto del chiodo
non è fare la ruggine:
è forse unire, sostenere,
fosse un corpo alla croce,
una tela alla parete,
una metafora alla mente.
In vero, il suo segreto
è il suo senso e lo scopo:
anche il chiodo
non può stare solo.
Il ruolo del terzo
abbisogna del due.
C’è stato un tempo in cui
avevo le ali e saltellavo,
avevo la voce e balbettavo,
avevo l’amore e dormivo.
Oggi, che poco sono,
per rivalsa, vivo.
A dieci anni
con la gioia in tasca
e il pane in mano
diventai poeta.
E ancor oggi
il volo nero dei rondoni
è una scia di guizzi persi
dal colore arcobaleno.
Ogni volta che la vita
mi scivola via, giù nel lavabo,
mi chiedo dove possa finire.
Sullo specchio, di fronte,
rimane qua e là,
incerto il contorno
d’un vecchio sorriso
dipinto in gioventù.
Ma ora, nulla di più
che una stupita domanda
resta la prova che vivo.
I bambini colorano, colorano, colorano e restano ore sulla
carta a consumare pastelli. Sembra lo facciano anche i giovani scimpanzè in
cattività, una volta incoraggiati. La loro intenzione, evidentemente, non è artistica.
Sono mossi probabilmente da una gratificazione legata al fare, all’agire, al
movimento. Lo stesso stato di benessere provato dallo sportivo, dal bricoleur,
dall’hobbista giardiniere e generato dall’essere assorbito dagli stimoli, stare
nel flusso degli eventi e vivere nello spazio in cui la mente si
rasserena, privata dai conflitti e pensieri negativi.
Chi si sente artista sa come questa benefica
sensazione sia perdurante nel tempo. Al pianoforte, davanti a una tela,
scrivendo righe su righe. Convive parallela alla pura dimensione creativa,
rappresentandone il carburante e l’energia vitale. In più, tuttavia, chi è
artista (contemporaneo) si interroga sul senso profondo del suo agire, su cosa
lo spinga a dire quello e null’altro che quello e, soprattutto, cosa gli impedisca
di smettere.
A tal proposito, le risposte possibili sono più delle
domande, le narrazioni personali appaiono molteplici, le opinioni talvolta
stravaganti.
Su di una voglio porre la mia attenzione, una domanda per
certi versi sgradevole perché poco nobile. Per diverso tempo l’ho avvertita in
me, latente, sfiorare ogni tanto la consapevolezza per nascondersi nuovamente.
Faccio arte per gli altri? La cosa non dovrebbe stupirmi
più di tanto, ma come la scuola lacaniana insegna - desiderio umano è di essere
desiderati - dovrei ammettere che attraverso l’arte ho tentato anch’io di
essere riconosciuto, stimato e amato come persona. Di certo, chi non può
confidare nell’avvenenza fisica e nel carisma naturale, non può pensare che gli
altri si interessino obbligatoriamente a lui. Deve confidare su altre doti,
cercare altre strategie. Ed ecco il punto: se la bellezza
creata fosse allora trasportata su una tela e quella tela fosse ritenuta
pregevole? Se la scrittura di un libro testimoniasse una grazia interiore
apprezzata pubblicamente? Oggetto e autore coinciderebbero e il desiderio verrebbe
soddisfatto. L’artista narcisista e vanesio diventerebbe in tale circostanza,
soltanto e soprattutto, una persona appagata. Condizione poco nobile, ma
possibile. E astenendosi da un rigido moralismo, dove può stare il problema?
Ahimè, il problema resta: se anche la creatura artistica prodotta non viene riconosciuta dagli altri, l’artista si sente svuotato due volte. La ferita dell’invisibilità resta aperta e la difesa dell’Io, così inefficace, porta all’anticamera della malinconia. Certo, si fa Arte anche per educare, testimoniare, lavorare, disvelare il mistero dell’animo, ma se fosse vero l’assunto vanesio, ecco la consapevolezza, ecco finalmente il motivo per smettere.
Ecco un coraggio d’artista. E l’inizio del fare selfie con il filtro. Da postare.
La poesia che forma
è quella che si legge,
la poesia che serve
quella che si scrive,
la poesia più alta
quella che si smette.
Per chiamarla vita.
Come una gioia di sole polare
la storia degli uomini:
sentirsi angeli buoni
per riscoprirsi animali.
Quando i graffi soltanto
t’accarezzano la pelle
e il tuo sorriso appare
misura del terrore,
il velo di Maya cade
e la realtà diventa quel che è.
Un amorevole orrore.
Se vuoi colorare la vita
senza i suoi colori,
evita gli indelebili,
le mezze tinte senza nome.
La gioia non abita
la vernice finale,
ma soltanto il colore
del continuo provare.
La felicità s’innamora di poco
e invano la cerchi per mare
o sulle cime dei monti.
Negli ori dei fiumi
o negli argenti di luna.
La felicità s’innamora di poco,
ma in quel poco non è piccina.
A volte basta un attimo
e una mattina…
Già compaiono in strada le maschere
e nell’aria piroettano coriandoli.
Qualcuno li fotografa cangianti
nel turbinio dei colori,
qualcun altro li ritrae nel fango,
intrisi d’acqua e appiccicosi.
Ma i coriandoli veri
si trovan solo dopo mesi:
nel risvolto che non sapevi,
nella scarpa che non mettevi.
D’improvviso,
come la vita che attendi.
C’è un tempo breve, più breve ancora,
in cui sulla battigia l’onda
non avanza, né si ritira,
un attimo eterno e sospeso
in cui l’aereo tocca terra,
la foglia lascia l’albero.
Un secondo reso un secolo
in cui il dentista esclama: “Fatto!”,
il medico: “Sei guarito!”.
C’è un tempo breve
per chiudere le palpebre,
per far nascere le lacrime,
dove un amico perso dice:
“Toh, guarda chi si vede!”
Quel tempo si chiama: “Ora!”
oppure solo: “presente”
ed in esso scopri che
non esiste il bene, non esiste il male.
È lì che il pensiero s’arrende:
la vita si colora di nulla
e si scolora di niente.
E la tenerezza che avverti
ha per nome
Pace.
L’inizio dell’ultimo giorno dell’anno
serba un tempo stonato:
l’intrigo dell’atteso futuro,
la ruggine del tempo andato,
speranza di nuovi arrivi,
rimpianto d’aver vissuto.
L’inizio dell’ultimo giorno dell’anno
è dunque un tempo senza presente:
il caffelatte che sa già di spumante,
il gusto del dolce divenuto fiele.
Il tempio dell’assente.