A pelle nuda e a occhi nudi,
a frugar dicembre tra la bora.
Con il pudore senza difesa.
Senza parola.
Davanti al terrore per gli altri
ognuno mente fin che può.
Illude e s’illude
per essere infelice.
A pelle nuda e a occhi nudi,
a frugar dicembre tra la bora.
Con il pudore senza difesa.
Senza parola.
Davanti al terrore per gli altri
ognuno mente fin che può.
Illude e s’illude
per essere infelice.
Il segreto del chiodo
non è fare la ruggine:
è forse unire, sostenere,
fosse un corpo alla croce,
una tela alla parete,
una metafora alla mente.
In vero, il suo segreto
è il suo senso e lo scopo:
anche il chiodo
non può stare solo.
Il ruolo del terzo
abbisogna del due.
C’è stato un tempo in cui
avevo le ali e saltellavo,
avevo la voce e balbettavo,
avevo l’amore e dormivo.
Oggi, che poco sono,
per rivalsa, vivo.
A dieci anni
con la gioia in tasca
e il pane in mano
diventai poeta.
E ancor oggi
il volo nero dei rondoni
è una scia di guizzi persi
dal colore arcobaleno.
Ogni volta che la vita
mi scivola via, giù nel lavabo,
mi chiedo dove possa finire.
Sullo specchio, di fronte,
rimane qua e là,
incerto il contorno
d’un vecchio sorriso
dipinto in gioventù.
Ma ora, nulla di più
che una stupita domanda
resta la prova che vivo.
I bambini colorano, colorano, colorano e restano ore sulla
carta a consumare pastelli. Sembra lo facciano anche i giovani scimpanzè in
cattività, una volta incoraggiati. La loro intenzione, evidentemente, non è artistica.
Sono mossi probabilmente da una gratificazione legata al fare, all’agire, al
movimento. Lo stesso stato di benessere provato dallo sportivo, dal bricoleur,
dall’hobbista giardiniere e generato dall’essere assorbito dagli stimoli, stare
nel flusso degli eventi e vivere nello spazio in cui la mente si
rasserena, privata dai conflitti e pensieri negativi.
Chi si sente artista sa come questa benefica
sensazione sia perdurante nel tempo. Al pianoforte, davanti a una tela,
scrivendo righe su righe. Convive parallela alla pura dimensione creativa,
rappresentandone il carburante e l’energia vitale. In più, tuttavia, chi è
artista (contemporaneo) si interroga sul senso profondo del suo agire, su cosa
lo spinga a dire quello e null’altro che quello e, soprattutto, cosa gli impedisca
di smettere.
A tal proposito, le risposte possibili sono più delle
domande, le narrazioni personali appaiono molteplici, le opinioni talvolta
stravaganti.
Su di una voglio porre la mia attenzione, una domanda per
certi versi sgradevole perché poco nobile. Per diverso tempo l’ho avvertita in
me, latente, sfiorare ogni tanto la consapevolezza per nascondersi nuovamente.
Faccio arte per gli altri? La cosa non dovrebbe stupirmi
più di tanto, ma come la scuola lacaniana insegna - desiderio umano è di essere
desiderati - dovrei ammettere che attraverso l’arte ho tentato anch’io di
essere riconosciuto, stimato e amato come persona. Di certo, chi non può
confidare nell’avvenenza fisica e nel carisma naturale, non può pensare che gli
altri si interessino obbligatoriamente a lui. Deve confidare su altre doti,
cercare altre strategie. Ed ecco il punto: se la bellezza
creata fosse allora trasportata su una tela e quella tela fosse ritenuta
pregevole? Se la scrittura di un libro testimoniasse una grazia interiore
apprezzata pubblicamente? Oggetto e autore coinciderebbero e il desiderio verrebbe
soddisfatto. L’artista narcisista e vanesio diventerebbe in tale circostanza,
soltanto e soprattutto, una persona appagata. Condizione poco nobile, ma
possibile. E astenendosi da un rigido moralismo, dove può stare il problema?
Ahimè, il problema resta: se anche la creatura artistica prodotta non viene riconosciuta dagli altri, l’artista si sente svuotato due volte. La ferita dell’invisibilità resta aperta e la difesa dell’Io, così inefficace, porta all’anticamera della malinconia. Certo, si fa Arte anche per educare, testimoniare, lavorare, disvelare il mistero dell’animo, ma se fosse vero l’assunto vanesio, ecco la consapevolezza, ecco finalmente il motivo per smettere.
Ecco un coraggio d’artista. E l’inizio del fare selfie con il filtro. Da postare.
La poesia che forma
è quella che si legge,
la poesia che serve
quella che si scrive,
la poesia più alta
quella che si smette.
Per chiamarla vita.
Come una gioia di sole polare
la storia degli uomini:
sentirsi angeli buoni
per riscoprirsi animali.
Quando i graffi soltanto
t’accarezzano la pelle
e il tuo sorriso appare
misura del terrore,
il velo di Maya cade
e la realtà diventa quel che è.
Un amorevole orrore.
Se vuoi colorare la vita
senza i suoi colori,
evita gli indelebili,
le mezze tinte senza nome.
La gioia non abita
la vernice finale,
ma soltanto il colore
del continuo provare.