Avvenne che la noia
lenì la paura,
la fantasia supplì alla noia
e la poesia
alla vita scadente.
I bambini colorano, colorano, colorano e restano ore sulla
carta a consumare pastelli. Sembra lo facciano anche i giovani scimpanzè in
cattività, una volta incoraggiati. La loro intenzione, evidentemente, non è artistica.
Sono mossi probabilmente da una gratificazione legata al fare, all’agire, al
movimento. Lo stesso stato di benessere provato dallo sportivo, dal bricoleur,
dall’hobbista giardiniere e generato dall’essere assorbito dagli stimoli, stare
nel flusso degli eventi e vivere nello spazio in cui la mente si
rasserena, privata dai conflitti e pensieri negativi.
Chi si sente artista sa come questa benefica
sensazione sia perdurante nel tempo. Al pianoforte, davanti a una tela,
scrivendo righe su righe. Convive parallela alla pura dimensione creativa,
rappresentandone il carburante e l’energia vitale. In più, tuttavia, chi è
artista (contemporaneo) si interroga sul senso profondo del suo agire, su cosa
lo spinga a dire quello e null’altro che quello e, soprattutto, cosa gli impedisca
di smettere.
A tal proposito, le risposte possibili sono più delle
domande, le narrazioni personali appaiono molteplici, le opinioni talvolta
stravaganti.
Su di una voglio porre la mia attenzione, una domanda per
certi versi sgradevole perché poco nobile. Per diverso tempo l’ho avvertita in
me, latente, sfiorare ogni tanto la consapevolezza per nascondersi nuovamente.
Faccio arte per gli altri? La cosa non dovrebbe stupirmi
più di tanto, ma come la scuola lacaniana insegna - desiderio umano è di essere
desiderati - dovrei ammettere che attraverso l’arte ho tentato anch’io di
essere riconosciuto, stimato e amato come persona. Di certo, chi non può
confidare nell’avvenenza fisica e nel carisma naturale, non può pensare che gli
altri si interessino obbligatoriamente a lui. Deve confidare su altre doti,
cercare altre strategie. Ed ecco il punto: se la bellezza
creata fosse allora trasportata su una tela e quella tela fosse ritenuta
pregevole? Se la scrittura di un libro testimoniasse una grazia interiore
apprezzata pubblicamente? Oggetto e autore coinciderebbero e il desiderio verrebbe
soddisfatto. L’artista narcisista e vanesio diventerebbe in tale circostanza,
soltanto e soprattutto, una persona appagata. Condizione poco nobile, ma
possibile. E astenendosi da un rigido moralismo, dove può stare il problema?
Ahimè, il problema resta: se anche la creatura artistica prodotta non viene riconosciuta dagli altri, l’artista si sente svuotato due volte. La ferita dell’invisibilità resta aperta e la difesa dell’Io, così inefficace, porta all’anticamera della malinconia. Certo, si fa Arte anche per educare, testimoniare, lavorare, disvelare il mistero dell’animo, ma se fosse vero l’assunto vanesio, ecco la consapevolezza, ecco finalmente il motivo per smettere.
Ecco un coraggio d’artista. E l’inizio del fare selfie con il filtro. Da postare.
La poesia che forma
è quella che si legge,
la poesia che serve
quella che si scrive,
la poesia più alta
quella che si smette.
Per chiamarla vita.