Nella casa senza porte,
a volte gioisce chi entra,
a volte gioisce chi esce.
Ma tutti sanno di vivere.
Nella casa senza porte,
a volte gioisce chi entra,
a volte gioisce chi esce.
Ma tutti sanno di vivere.
Il tempo frena.
Nel silenzio agostano provo ad aspettare
che almeno l’aria mi traversi le narici,
che la saliva scenda in bocca,
che una nuvola compaia nel cielo sereno.
Come faccia il cuore
a battere ancora
per tanto nulla
è un miracolo che non mi spiego
e per questo amo davvero.
Se la noia ha un tempo
spero non sia l’eterno.
Sono stato ad aspettarvi
con le mani in tasca,
seduto sullo scalino d’entrata,
sul divano di casa,
steso a letto a sudare,
non capendo d’esser partito
anch’io con voi,
per altra strada, quella
che imbianca i capelli,
raggrinza la pelle e offre
la fatica di vivere
al poter respirare.
Nel caro sepolcro, da anni,
la vostra età è uguale a sé stessa
e il silenzio ha un fiato immutabile,
una pace senza lacrime.
Qui, un vecchio bambino tremante,
invece, ancora vi piange.
Ancora gira,
malgrado qualche macchia di ruggine
le abbia rubato lo smalto
e qualche cigolio di latta
le rallenti il cuore.
Ancora gira,
anche se, ben più grave,
il problema irrisolto
è sapere dove va.
Ti cammino dentro e ti chiedo scusa,
già che scricchioli secco,
tra le chiome a terra, perse
come dopo una chemio,
senza resine e fiori,
senza fiato, solo senza.
Tu, che parlavi ai poeti
attraverso il silenzio,
e ora vivi in stridori di ruspa,
potendo solo morire.
“In me restano i ricordi
e l’incanto dei tuoi ritmi”,
e questo mi consola
quando so di soffrire.
Ma in anima
sei stato la mia pace,
la dolcezza di vivere.
Non so se c’è parola per ogni cosa,
se esiste un dire per un sottile sentire,
un suono o una sillaba
per una corsa da fermo.
So che la poesia può tanto,
ma sul limite estremo
rimangono il silenzio soltanto
e la voglia che possa essere meno.
O riveli d’improvviso l’incanto.
Ho fatto un disegnetto
su carta da buttare.
Figura una medaglia
con scritto “oro” in grande.
L’ho data ad un bambino,
diventato un gigante,
quello che ognuno porta dentro
e che, spesso, impreca e piange.
Non che meriti, sia chiaro,
ma visto il mondo avaro,
gli ho detto: “E’ poco più che niente,
ma per te, mio triste Io,
sarò un sorriso presente!”.
Non so se per un ordine, un comando,
un’occasione avverata.
Non so perché sia avvenuto:
perché io sia stato dato a un mondo
a sua volta dato da un demiurgo
o da un balenio improvviso
d’un petardo autogenerato.
Ma in questo mondo di teatro confuso
dove ballo e piango, scherzo e amo,
prodigiosamente comico, il nulla cosmico
sa far ridere col niente.
L’enorme platano è morto di suo
e potature malfatte.
Ma se ne sta, ancora imponente, a mezza strada
come un gladiatore che ha fatto storia,
un grande artista venuto a gloria,
senza più foglie e tuttora muto,
intrigato e intrigante al quesito:
“Vecchio amico gigante,
hai mai saputo d’essere esistito?”
Che la poesia odori di colla e di pece,
usi sillabe incerottate
e tenga versi sospetti,
che frequenti editori indaffarati,
critici distratti
e lettori inesistenti
non è più cosa nuova,
né tanto più importante.
A me, piuttosto giova
che la sua luce fioca,
rimanga un alto faro ancora.
Con quello ogni lucciola cieca
nel buio trova,
da millenni il suo amante.
È inutile chiedersi quanto pesi l’illusione:
se più o meno di una piuma,
se i grammi servono a valutarla.
L’animo la sostiene
come un refolo d’aria
e pare poco più d’un accenno,
una presenza eterea e vaga.
Soltanto quando cade diventa un macigno,
soltanto allora, vivere
è trascinare una montagna.
Giungono rumori d’altri tempi
come eco malate di cori imperiali
e d’orrori infetti per aria,
come scoppi di sangue e strappi di cannone
ancora sulla pelle degli ultimi,
giungono strepitosi ai nostri orecchi sordi,
di chi crede non credendoci,
di chi parlando resta muto.
“In fondo, tutto va bene – recita il Tg –
perché tutto continua!”
E infatti il merlo nell’orto nidifica,
l’avaro accumula, l’ingordo spreca
e ogni animo turbato si gira
verso l’hamburger in offerta unica.